IL POETA, IL PITTORE, IL COLLEZIONISTA, L’INGLESE E… NAPOLEONE

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IL POETA, IL PITTORE, IL COLLEZIONISTA, L’INGLESE E… NAPOLEONE

La mostra L’Arte e il Potere ruota intorno a quattro esponenti dell’arte e della cultura a cavallo tra XVIII e XIX secolo e al loro rapporto con l’epopea napoleonica: Vincenzo Monti, Andrea Appiani, Giuseppe Bossi e George Byron.

VINCENZO MONTI (1754-1828)


Di Vincenzo Monti è risaputo che riuscì a trovare un modus vivendi con i regimi più disparati, dalla Roma papalina alle diverse espressioni statali del dominio napoleonico (Repubblica Cisalpina, Repubblica Italiana, Regno d’Italia), dall’Austria di Francesco I e Metternich al Regno di Sardegna del “Re Tentenna” Carlo Alberto.
Sotto Napoleone, Monti ricoprì l’importante carica di “istoriografo del Regno Italico” e numerose sono le sue opere poetiche ispirate a fatti d’arme dell’epoca (Il bardo della selva nera, La spada di Federico II) oppure dedicate ai potenti dell’entourage bonapartista, circostanza di cui è emblema la prima edizione dell’Iliade montiana, dedicata al vicerè d’Italia Eugenio di Beauharnais.
La Galleria Baroni espone il busto con le fattezze del Monti scolpite nel marmo di Carrara da Pompeo Marchesi (1790-1858), artista dal curriculum analogo al grande letterato, che mise il suo talento al servizio tanto di Napoleone quanto degli Austriaci. Il busto, di cui risultano esistere solo quattro esemplari distribuiti tra Milano, Vienna e San Pietroburgo in collezioni sia pubbliche sia private, fu commissionato a Monti da Carlo Alberto nell’anno della sua morte, avvenuta nel 1828. Alla figura di Monti e alle sue opere la Galleria accosta un’importante edizione della Divina Commedia dantesca, illustrata da Luigi Ademollo (1764-1849), uno dei principali artisti del Neoclassicismo: Monti celebrò infatti a più riprese la grandezza dell’Alighieri e negli anni in cui fu Commissario in Romagna della Repubblica Cisalpina ne fece una sorta di patrono laico della città di Ravenna (che ne conserva le spoglie), in aggiunta a quello religioso. Un dettaglio questo di fondamentale importanza per comprendere quanto Monti abbia contribuito a quella secolarizzazione che il ciclone napoleonico avrebbe introdotto in Italia.


ANDREA APPIANI (1754-1817)


La rassegna della Galleria Baroni non poteva non contemplare la personalità di Andrea Appiani. E questo per un triplice motivo. Innanzitutto perché una galleria con sede a Milano che propone una mostra su Napoleone non può non rendere omaggio ad Appiani, che nel capoluogo lombardo ha lasciato numerose testimonianze artistiche. A partire dall’omonima Palazzina situata all’ingresso dell’Arena civica inaugurata nel 1807, per arrivare ai cicli pittorici realizzati per Palazzo Reale. Di questi ultimi è sopravvissuto solamente l’affresco Apoteosi di Napoleone, mentre le tempere dei Fasti di Napoleone sono state pesantemente danneggiate nel 1943 nel corso di un bombardamento. Queste immagini continuano tuttavia a vivere nelle acqueforti edite durante l’Ottocento. È peraltro documentata la “consulenza” fornita da Vincenzo Monti ad Appiani “onde rendere più esatta e savia la disposizione” dei dipinti. Del rapporto profondo tra Appiani e Monti testimonia d’altronde anche il ritratto del poeta conservato a Roma presso la Galleria Nazionale d’Arte Moderna.
In secondo luogo Appiani è figura chiave della nostra rassegna in quanto fu uno dei principali artefici dell’iconografia ufficiale di Bonaparte, come dimostrato sia dalle opere sopra ricordate sia dal celeberrimo ritratto di Napoleone re d’Italia (di cui esistono diverse varianti).
In terzo luogo perché tra gli oggetti della collezione Baroni risulta una testa in cera raffigurante l’Appiani, opera di Gaetano Monti di Milano datata 1810 (come attesta il retro vergato dallo stesso Monti, “Andrea Appiani primo pittore di corte di S.M. L’Imp.re Napoleone 1810”). Bertel Thorvaldsen (1770-1844), lo scultore danese antagonista di Antonio Canova, si fece realizzare dallo stesso Monti un esemplare della testa in cera dell’Appiani di dimensioni maggiori rispetto a quella della collezione Baroni, che è l’originale. Quella per Thorvaldsen risale infatti al 1820, anno in cui gli fu commissionato il monumento in memoria dell’Appiani, oggi collocato all’interno del Museo di Brera presso il caffè “Fernanda”. Sulla lunetta spicca il medaglione in marmo recante la testa del pittore, in tutto e per tutto simile al modello in cera. Al suo ritorno in Danimarca Thorvaldsen portò con sé la testa in cera, ancora oggi visibile presso la Fondazione Thorvaldsen di Copenhagen.


GIUSEPPE BOSSI (1777-1815)

Personalità di primissimo piano del Neoclassicismo lombardo, il bustocco Giuseppe Bossi contribuì in maniera determinante al fiorire dell’Accademia di Brera: presso quella scuola egli non solo si formò come pittore (ma fu anche scrittore e collezionista), bensì ne divenne segretario a soli 23 anni, elaborandone lo statuto. Riuscì a ottenere da Napoleone di indirizzare a Brera le opere d’arte confiscate a chiese e conventi, rendendole fruibili a studenti e cittadini, ponendo in tal modo le basi della prima pinacoteca milanese. Qui si può ancora oggi ammirare il suo grande dipinto La Riconoscenza della Repubblica Italiana a Napoleone. L’Accademia espresse nei confronti di Bossi un omaggio postumo nel 1817 commissionando a Camillo Pacetti il monumento ancora oggi visibile nel cortile di Brera. Straordinario è però il monumento realizzato da Antonio Canova e Pompeo Marchesi in memoria dell’artista, custodito presso la Biblioteca Ambrosiana.
Di Bossi la Galleria Baroni espone il Simposio, disegno a matita e penna databile al 1800 che guarda sia a Felice Giani (il massimo esponente del Neoclassico nello Stato della Chiesa) sia agli studi di Poussin sul Cenacolo vinciano. Sul retro del disegno Bossi schizzò la testa di Napoleone, quasi che il generale corso fosse una sorta di idée fixe del pittore bustocco. È fuor di dubbio la somiglianza tra questa testa e l’olio su tela Ritratto di Napoleone appoggiato al globo, pure esso opera del Bossi.



GEORGE BYRON (1788-1824)


La Galleria Baroni ha voluto includere nella sua rosa di intellettuali e artisti un “forestiero”, non italiano, in rappresentanza di tutti quei sudditi di regimi antagonisti di Napoleone che ne ammirarono la personalità e, in certi casi, ne sposarono entusiasticamente la causa. Non rimasero immuni al fascino di Bonaparte né il tedesco Goethe, né il russo Pushkin né, appunto, l’inglese Byron. Quest’ultimo trovò letteralmente rifugio nell’Europa continentale controllata da Napoleone (tra il 1819 e il 1824 visse a Ravenna), visto che le sue attitudini sessuali mal si conciliavano con l’etica puritana allora imperante in quella monarchia, dove simili diversità venivano punite con la pena capitale. Invece, il Codice napoleonico accordava una buona dose di libertà anche nella sfera più privata degli individui. E questo nel 1810, in assoluto anticipo sui tempi; non a caso Bonaparte espresse negli ultimi anni della sua vita il desiderio di essere ricordato non tanto per le sue campagne militari quanto per le leggi da lui promulgate. L’affinità elettiva tra Byron e Bonaparte traspare anche dal culto per la Grecia nutrito dal poeta, che per l’indipendenza di quel Paese andò a morire a Missolungi. L’appropriazione degli ideali e dei simboli della classicità da parte della Rivoluzione Francese e in seguito dell’Impero napoleonico è infatti circostanza difficile da contestare. La mostra L’Arte e il Potere allestita presso la Galleria Baroni esibisce numerosi medaglioni in bronzo, eseguito da David d’Angers (1788-1856) prima del 1838, tra i quali spiccano quelli con l’effigie di Byron e di Henry Beyle meglio noto come Stendhal.

Riportiamo di seguito un intervento del Prof. Bruno Nacci a proposito del tema “Arte e Potere”, al quale è dedicata anche la mostra attualmente in programma presso la Galleria Baroni.

Il rapporto potere/arte, mi sembra, ha una lunga e non sempre gloriosa storia (ma neanche poi così trucida). Si passa dalle arti come scultura e architettura, che per loro destinazione hanno sempre richiesto un committente pubblico, o quelle come il cinema, che richiede capitali e strutture in genere enormi, a quelle come la pittura, che per secoli è stata vincolata a commissioni nobiliari o altoborghesi. In tutti questi casi il potere, tranne la sua forma autocratica o totalitaria che impone una ideologia ed esige che l’arte si faccia propaganda di questa ideologia, si è sempre servito dell’arte come di un indiretto motivo di autocelebrazione, lasciando per lo più agli artisti una certa libertà espressiva. La Chiesa e le Corti rinascimentali, così come gli imperatori romani, sono state centro di elaborazione artistica e motore di imprese memorabili, senza dimenticare le dediche dei poeti e degli scrittori che al potente chiedevano protezione e sostentamento. Con la nascita dello stato moderno, la centralizzazione, la burocratizzazione, il policentrismo, l’espansione territoriale, i nuovi mezzi di comunicazione, il legame tra arte e potere si è notevolmente affievolito, e l’artista moderno sembra essersi emancipato da una commissione preferenziale, tranne nei casi sopra ricordati, dove o un’ideologia totalitaria o motivi finanziari lo costringono a venire a patti con chi esercita il potere. La via per la celebrazione del potente o del potentato passa ormai per l’esibizione di singoli pezzi quotati/autori, che sono intercambiabili con auto da corsa o ville lussuose. Un conto è il cardinal Borromeo che chiede con competenza a Caravaggio: «Un quadro di lunghezza di un braccio, et di tre quarti all’ incirca di altezza, dove in campo bianco è dipinto un Canestro di frutti parte ne rami con lor foglie, et parte spiccati da essi/fra questi vi sono due grappoli di uva, uno di bianca, et / l’altro di nera, fichi, mele, et altri di mano di Michele/AgnoloCaravaggio».
Un conto sono i Man Ray o i Picasso dei ricchi collezionisti che li considerano investimenti di capitale legati all’andamento del mercato e che nel mercato li cercano e li trovano. Non per questo però, o non necessariamente, la libertà pressoché totale dell’artista moderno ha coinciso con una produzione di valore superiore a quella di chi dipendeva dal potere. I vincoli politici e religiosi dell’antica committenza sono stati anche uno stimolo per la creatività, così come la rima per il poeta e la retorica nel suo complesso in campo letterario, mentre l’autonomia (Baudelaire: “Del nuovo, del nuovo a tutti i costi”) sembra in molti casi aver affievolito la vena creativa generando uno smarrimento, quando non ha fatto perdere di vista il fruitore della medesima. Se Virgilio e Ariosto, Michelangelo e Caravaggio, aderivano più o meno alle richieste dei loro protettori, celebrandone la fama e il potere, piegandosi a fini non sempre condivisi, al tempo stesso sapevano proteggere la loro originalità, affermavano il loro personale intendimento giocando una partita che ne metteva in luce il grande talento e l’astuzia (le madonne popolane e prostitute di Caravaggio!), l’artista moderno, lasciato a se stesso, sembra spesso preda di smarrimento o anche solo di una anarchica pulsione individuale. L’ideale romantico che intendeva superare i vincoli formali della tradizione e che inaugura la stagione del nuovo individualismo ha modificato profondamente il lavoro artistico, generando speranze in una nuova stagione di emancipazione e rompendo forse troppo drasticamente con briglie dorate che erano un limite, ma un limite da superare.